Intervista al Dott. Riccardo Masetti

Intervista al Dott. Riccardo Masetti

Tra corsia e laboratorio, per curare i bambini colpiti da leucemia mieloide

Riccardo Masetti è un pediatra specializzato nelle leucemie mieloidi dell’età pediatrica: a Bologna conduce una ricerca sulle cause genetiche delle forme aggressive che colpiscono i bambini più piccoli.

La mattina in corsia con i piccoli pazienti in unità trapianto, il pomeriggio in laboratorio a seguire i progetti di ricerca: è la giornata tipo di un medico ricercatore come Riccardo Masetti.

Riccardo è nato a Lugo, in provincia di Ravenna, 35 anni fa; all’Università di Bologna si è laureato con lode in medicina e chirurgia e si è poi specializzato in pediatria generale e specialistica. Successivamente ha completato la sua formazione conseguendo anche un dottorato di ricerca in biotecnologie del trapianto di midollo osseo presso l’Università di Perugia.

Nel Reparto di Oncologia ed Ematologia Pediatrica Lalla Seràgnoli del Policlinico Sant'Orsola- Malpighi di Bologna, Riccardo cura i bambini malati di tumore e contemporaneamente porta avanti un progetto di ricerca sulle leucemie mieloidi in età pediatrica, grazie al sostegno di Fondazione Veronesi e Fondazione Ginevra Caltagirone.

Queste malattie rappresentano il 10-20% delle leucemie in età pediatrica, con un’incidenza di circa

65-70 nuovi casi all’anno nell’età compresa tra 0 e 15 anni. Si tratta di un gruppo di disordini molto eterogenei per caratteristiche cliniche e genetiche e, nonostante i notevoli progressi in ambito terapeutico, hanno ancora oggi una prognosi sfavorevole; la sopravvivenza dei bambini a cinque anni dalla diagnosi non supera il 65%. Ancora c’è molto da fare, se consideriamo che per altri tipi di leucemia, come quella linfoblastica acuta, la sopravvivenza è dell’85%.

 

Riccardo, in cosa consiste la tua ricerca?

«Fin dall’inizio della mia attività come ricercatore mi sono occupato delle leucemie mieloidi dell’età pediatrica. Tra i bambini che si ammalano di questa grave forma di leucemia una delle categorie a più alto rischio sono quelli che la sviluppano entro il primo anno di età, chiamati “infants”. L’obiettivo è identificare, tramite il sequenziamento di nuova generazione, anomalie genetiche ricorrenti ancora sconosciute che possano permettere una miglior comprensione biologica della malattia ed una migliore modulazione del trattamento».

 

Quali sono le possibili applicazioni della ricerca alla pratica clinica?

«Le conoscenze derivate da una più profonda comprensione biologica della leucemia mieloide nei bambini permetteranno di impostare programmi di terapia sempre più personalizzati in base alle specifiche caratteristiche del singolo paziente. Inoltre aprono lo scenario della sperimentazione di nuove molecole mirate che stiamo testando su specifici bersagli identificati; è un nuovo modello di terapia “intelligente” perché arriva precisamente all’origine della leucemia, per migliorare la sopravvivenza globale dei piccoli pazienti affetti da forme particolarmente difficili da curare attualmente».

 

Quali risultati sono stati raggiunti e quali sono i prossimi passi?

«Abbiamo già identificato nuove alterazioni genetiche in alcuni sottotipi aggressivi di leucemia mieloide, soprattutto negli “infants”; la fusione di due geni diversi che portano alla produzione di una proteina anomale. I bambini portatori di queste alterazioni hanno un rischio di recidiva maggiore e una sopravvivenza inferiore. Questo gene di fusione stimola l’attivazione anomala di una via biochimica che controlla la crescita incontrollata delle cellule. Abbiamo inoltre identificato 135 nuove mutazioni a singolo nucleotide potenzialmente associate allo sviluppo di leucemia mieloide cronica. I prossimi passi riguardano la validazione di queste mutazioni e l’identificazione di farmaci che possano essere utilizzati con successo come nuova terapia mirata per i piccoli pazienti».

 

Nel 2013 sei stato un borsista sostenuto da Fondazione Veronesi grazie al contributo di Fondazione Ginevra Caltagirone, e dal 2014 sei a capo di un progetto di ricerca, sempre sostenuto dalle due Fondazioni: una bella soddisfazione e un riconoscimento per il merito scientifico. Cosa ha rappresentato per te?

«Moltissimo. Il finanziamento ha permesso non solo l’avvio ma anche la prosecuzione del progetto di ricerca; senza di esso non avremmo avuto possibilità di sequenziare un alto numero di campioni né di chiedere le collaborazioni con altri ospedali, come l’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma e la Clinica Pediatrica di Padova, che ci hanno permesso di raccogliere molto materiale. Per me ha rappresentato la possibilità di dare concretezza a un’idea che oggi è divenuta un filone di ricerca consolidato».

 

Come mai, da medico e clinico, hai deciso di dedicare ampio spazio anche all’attività di ricerca?

«Penso che la ricerca sia la linfa vitale del lavoro del medico. È una certezza che vedo ogni volta che finiscono le strategie di terapia convenzionale per un bambino, ogni volta che sono costretto a dire che non ci sono più alternative. Grazie agli sviluppi della ricerca questo triste orizzonte si allontana sempre più e questo è quello a cui penso più spesso quando mi interrogo sull’utilità della ricerca nel nostro lavoro di medici».

 

Qual è il momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare?

«Vorrei incorniciare ogni giorno: l’esempio che tutte le famiglie dei bambini affetti da patologie oncoematologiche rappresentano per noi operatori, e la loro profonda umanità, è l’aspetto più bello della mia vita professionale».

 

Come ti vedi fra dieci anni?

«Più esperto, spero più umile e più curioso».

 

Hai mai pensato di andare all’estero?

«Non per sempre, ma mi piacerebbe trascorrere un periodo al Saint Jude Research Hospital di Memphis, negli Stati Uniti, perché è uno dei centri di oncologia ed ematologia pediatrica più grandi e di rinomata eccellenza».

 

Quali sono stati i tuoi punti di riferimento professionali?

«I primi oncologi pediatri e oncologi in generale,tra cui sicuramente Sidney Farber, che per primo a Boston negli anni Cinquanta tentò, sfidando lo scetticismo dell’intera comunità medica, la strada della chemioterapia per curare le leucemie pediatriche, che all’epoca erano incurabili, e che oggi è considerato il padre della chemioterapia per la cura del cancro».

 

Se dovessi scommettere sul filone della ricerca biomedica del futuro, quale sarebbe?

«Punterei sulla sperimentazione di farmaci per terapie molecolari mirate, come gli anticorpi monoclonali o gli inibitori delle proteine tirosinchinasi».

 

Qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca ogni giorno?

«La ricerca è per me una domanda continua, un confronto con i propri limiti e con la voglia di interrogarsi sempre su quello che stiamo facendo. Non è solo la banale risoluzione di un problema a gratificare ma gli interrogativi che scaturiscono durante il percorso. Questo mi affascina, nella ricerca professionale come nella vita».